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Lavorare in site-specific: tre proposte d’arte nella sabbia di Ostia

di Beatrice Savelloni


Mostra collettiva Neuland, Sporting Beach, 1-2 aprile 2023: Elena Boni, Angelina Chavez, Futura Tittaferrante.

 

Una mostra più che temporanea estemporanea (non improvvisata ma svolta nel tempo performativo di due giornate) quella tenutasi allo Sporting Beach nei giorni che precedono l’apertura della stagione balneare; una mostra nata dall’incontro tra Alessandra Borzacchini e l’artista Futura Tittaferrante vista con le sue opere alla villa Aldobrandini di Frascati. Colpita dalla sua poetica di immersione nella natura, la direttrice artistica dello Sporting Beach invita la fotografa ad instaurare un dialogo con il “suo” mare. Sarà poi lei ad estendere l’invito a due colleghe, Elena Boni e Angelina Chavez, dando vita alla collettiva intitolata Neuland. Letteralmente: una “terra nuova”, che per tutte e tre le artiste ha significato studiare il luogo per riqualificarne il senso, oltre lo spazio; problematizzare l’esistenza dello stabilimento balneare e non usarlo solo come contenitore. 

Un’atmosfera da luogo abitato – contro la fotografia “vuota” di Chavez scelta per la locandina – accoglie i visitatori il giorno dell’inaugurazione. 

La fotografa e performer Angelina Chavez porta allo Sporting Beach una piccola serie di foto scelte, realizzate ad hoc per l’occasione. Queste fotografie colpiscono per l’apparente ambientazione montuosa o addirittura lunare, in cui l’artista, solita lavorare sul tema dell’autoritratto, posa con uno specchio. Apparente, infatti, perché scopriamo attraverso il suo racconto che gli scatti sono avvenuti sulle dune artificiali costruite per proteggere lo stabilimento dalle mareggiate invernali, e che si possono scorgere affacciandosi poco più in là dall’esposizione. Uno shooting difficile – l’idea del nudo convertita in una tuta neutra, uno specchio risucchiato dal mare, persone che passeggiano – a cui la fotografa ha voluto aggiungere la sfida del tempo per scattare nell’”ora blu”: i venti minuti che separano il tramonto dal buio totale. Il risultato sono delle fotografie conturbanti, di raffinata fattura e di sottili scelte iconografiche, che fanno riflettere attraverso l’uso di un vuoto metafisico. L’artista racconta che l’esito è raggiunto per moto contrario al suo modus solito: non istintivo ma per ragionamento, forzato e faticoso, iniziato con il primo sopralluogo allo Sporting Beach, di cui ricorda il sentimento di sopraffazione. Le fotografie, tranne una che è poggiata sulla sabbia, sono rette verticalmente dalle palmette dello stabilimento: partita dal primo elemento per cui ha provato fastidio, l’autrice ha saputo sagacemente riconvertirlo in basamento, così che le palme vengono allo stesso tempo nascoste e messe in evidenza. In questo modo l’artista costringe il visitatore a percorrere il piazzale di sabbia, diventato “mare immaginario” le cui palme sono isole o palcoscenico per le cabine chiuse, disposte tutt’attorno come muti spettatori. Queste metafore sono contenute nel diario scritto da Angelina Chavez e portato in mostra come resoconto di questo affascinante iter creativo, e merita senz’altro lo status di opera a sé.

Anche Elena Boni realizza il suo intervento a contatto con lo Sporting Beach: incontriamo le sue opere nello stesso piazzale di sabbia, lungo il percorso, tra le palme. Anche per lei l’ideazione è venuta con un primo, difficile sopralluogo di cui racconta l’impatto di non-accoglienza. Così l’artista nonché designer decide di “arredare” il luogo, occupandone lo spazio. La sua installazione prevede la pittura di alcune stoffe, iniziata in loco e ripresa in studio, e il successivo utilizzo di vecchie strutture in legno per montare le tele a mo’ di sdraio; le strutture sono degli anni Cinquanta, appartenute allo stabilimento e conservate gelosamente tra i ricordi della fondazione. Questa scelta è perfettamente coerente con quello che l’artista sceglie di comunicare con la sua pittura: il ricordo, la memoria infantile del mare vissuto con i nonni a Sabaudia, tra castelli di sabbia e altri giochi. Le sdraio dunque rappresentano scene di vita trascorsa in un qualsiasi stabilimento ma, in un curioso gioco tautologico, richiamano la fisionomia dello Sporting Beach. Regna nella pittura di Elena Boni lo stesso, ma diverso, vuoto metafisico delle fotografie di Chavez, un vuoto inteso come pieno proprio delle stampe giapponesi, cui rimanda anche la bidimensionalità e i tratti sottili neri. La tecnica, che prevede l’uso del pennarello indelebile e di colori per stoffa, non ammette ripensamenti né stratificazioni come nel caso della pittura su tela, non ammette insomma indecisioni. Una sfida cui si sottopone la Boni, e se è vero ciò che avrebbe detto il padre di Sherlock Holmes, A.C. Doyle, che il tocco dell’artista sta nel sapere quando fermarsi, la Boni ne dimostra pienamente le capacità. Dalla conversazione con l’autrice emerge un dato interessante: il tema del mare in Neuland ha scatenato in lei evocazioni profondamente diverse da quelle provate a Salina, isola dove ha partecipato ad una residenza artistica l’anno scorso insieme a Chavez e Tittaferrante: allo Sporting Beach il mare si fa meno natura o grandezza sterminata, e più intimità, memoria dell’infanzia in cui tutti, credo, possiamo identificarci. Elena Boni è l’artista di Neuland che più rende esplicito il legame con le colleghe e l’esistenza di una creazione sinergica tra loro: lo fa ritraendo su una sdraio una figura di donna immersa nel blu mare, che, lei ammette, si ispira allo shooting di Angelina Chavez, e citando il lavoro di Futura Tittaferrante, seppur inconsciamente, in un lembo di tessuto issato al vento a fianco di una sua sdraio. 

Futura Tittaferrante, fotografa e artista, fa vivere la sua installazione del contatto diretto con il mare e con il vento. Diversamente dalle altre due, si spinge oltre il piazzale, pensando di operare veramente sul mare: riconverte due sporgenze in cemento a quinte teatrali e occupa la piccola insenatura artificiale formata tra esse. A quest’idea di quinta prospettica rimanda anche il titolo scelto: Oltre lo sguardo. L’installazione è un sipario, un ostacolo che blocca lo sguardo sull’orizzonte: un filo teso sul bagnasciuga a cui sono appese delle fotografie stampate su stoffa – esse riproducono, in un accostamento per niente banale, immagini scattate ad una flora boschiva e lì poste a ricordare il fondale marino – tagliate in strisce verticali e rimescolate tra loro immaginando che queste fossero mosse dal vento e toccate dolcemente dalle onde. 

A pochi minuti però dall’inaugurazione ecco che il mare impetuoso di una mattina col sole colpisce l’opera, risucchiandola e riappropriandosi di quello spazio. Inizia così quella che possiamo definire una performance accidentale: l’artista entra in mare per recuperarne i pezzi. Anche se il salvataggio sarà solo parziale non si può dire esser venuta meno la suggestione dell’opera, anzi.

Era stata proprio una recente mareggiata a convincere l’artista ad esporre oltre la barriera di protezione dello stabilimento, e l’uso del filo doveva rimandare proprio alle parole che la Tittaferrante usa quella mattina “il mare non lo puoi legare”. Credo che quello che è successo rappresenti in modo più spontaneo, non controllato né prevedibile possibile la potenza anche distruttiva del mare e la precarietà vissuta da tanti litorali, su cui veramente quest’azione può sensibilizzare. In questo Futura Tittaferrante si confronta, consapevolmente o meno, con il maestro Michelangelo Pistoletto che, sullo stesso tema – la presa di coscienza del presente – e sulla stessa sabbia aveva portato nella primavera del 2019 il suo Terzo Paradiso, performance che, con il suo intervento sebbene effimero, vuole risvegliare nell’osservatore gli stessi temi di cura della natura e di connessione con essa. 

Proponendo una risemantizzazione dello spazio, Neuland, benché si sia svolta in soli due giorni, ha saputo trasmettere efficacemente, grazie alla sensibilità delle tre artiste, la storia e insieme l’attualità di emergenza dello Sporting Beach e delle nostre spiagge.