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Comunicato stampa

testi critici  per Francesca Guidieri

 

 

La Luna Noctiluca hebbe sul Palatino un tempio, che rilucea solo di notte. (Famiano Nardini, Roma Antica, 1666)

 

 La rodopsina, la cui produzione richiede circa quindici minuti, è la proteina che si forma in condizioni di oscurità attivando i bastoncelli, le cellule dell’occhio umano preposte alla visione notturna. Insensibili ai colori, li restituiscono al cervello come mere sfumature e tonalità di nero e grigio. In condizioni di luminanza ridotta, l’acuità visiva perde notevolmente di potere risolutivo e quando la radiazione luminosa si attenua, fino a scomparire, distinguere con precisione ciò che ci circonda richiede la massima dilatazione della pupilla, in adattamento progressivo.

 L’atto chiede cioè estrema apertura all’ignoto, disponibilità alla sorpresa, pazienza all’adattamento e massima ricettività. Dove il giorno svanisce e la notte si appropria delle cose, lì risiede il cimento della comprensione, la facoltà di analizzare e distinguere, la volontà di scegliere.

 È sul velluto scuro come la notte che Francesca Guidieri sceglie di mettere alla prova la capacità di adattarsi al buio, insieme alla riflessione sull’antico e sul classicismo, mentre sfida il Tempo per trovare il proprio. Rievocando gli stilemi classici, l’artista scioglie in réverie l’esattezza della citazione e fonda un regno della pittura, del tratto, del disegno, dove si alternano Monumentale e Piccolissimo. Dosando la concentrazione del pigmento e dell’addensante per dare più o meno luminosità, traccia i segni fosforescenti di architetture, figure e paesaggi, discrimina i colori per ottenere la verosimile risoluzione dei dettagli, e la maniera raggiunge appieno lo status di tecnica pittorica: “Mentre dipingo cerco un’immagine che rechi in sé una parte del mistero della pittura: luce, ombra, contrasto, linee, vibrazioni, un tentativo di controllare la materia e sondarne il versante alchemico.” Allora mi metto in ascolto del racconto di questi sogni notturni e del bagliore che compone le immagini sottili di una narrazione per frammenti, nella riscrittura dei ricordi. Lei mi bisbiglia all’orecchio, come la Sibilla: “L’ispirazione mi impone contemporaneamente soggetti e tecnica. Per questo mio viaggio nell’antichità ho scelto il velluto opaco e la sua qualità di assorbenza della luce, e il disegno chiaro appare allora più essenziale e vibrante. L’incursione sonnambula nel mondo elegiaco degli antichi, con il suo palese richiamo ai paesaggi delle pitture romane, mi invita, in un processo all’inverso dell’immagine in positivo che appare progressivamente dal negativo fotografico, nell’altro mondo pieno di spiriti”.

 È questa particolare memoria, aprendo alla consapevolezza del patrimonio antropologico e culturale che siamo, ad assumere in sé la continuità e la frattura che ci separano dal passato. Allestire e poi abitare uno spazio comune tra il Principio e l’Oggi, in quest’epoca post-moderna, post-ideologica e dunque post-tutto, ha precisamente il senso di una nuova interpretazione della Storia dell’Arte, che non è conoscenza, ma comprensione.

 Scrive Giorgio Agamben in Che cos’è il contemporaneo, folgorante esempio di come si possa affrontare la questione della contemporaneità con capacità immaginifica e insieme rigore filosofico: “La contemporaneità è una singolare relazione che aderisce al proprio tempo e, insieme, ne prende le distanze. Coloro che coincidono troppo pienamente con la loro epoca combaciando perfettamente con essa in ogni punto, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla. Per esperire la contemporaneità è invece necessario quello scarto che consente di scorgere l’ineffabile e contemporaneo è chi riceve in pieno viso il fascio di tenebra proveniente dal suo tempo.”

 Essere contemporanei vuol dire non coincidere col proprio tempo, ma percepire il buio del presente per afferrarne l’essenza e porsi in atteggiamento di contemporaneità con il passato, liberandosi dalla legge della inerte consequenzialità. E nonostante oggi, a tratti, si abbia l’impressione di essere immersi soltanto nel buio più cieco, Francesca Guidieri si accorge che quel buio contiene “qualcosa in più che la notte” e trova la possibile occasione di modernità, definendo, con impegno e naturalezza, il “futuro del classico”.

 

Paola Pallotta

 

 

 Millenni dileguarono in lontananza, come uragani. Al suo collo piansi lacrime d’estasi per la nuova vita. Fu questo il primo, unico sogno e da allora sento un’eterna, immutabile fede nel cielo della notte e nella sua luce, l’amata. (Novalis, Canti alla Notte, III, 1800)

 

 Certo nessuno avrebbe potuto ignorare le stranissime voci che circolavano prima che partissimo. Voci di qualcosa che era stato scoperto sulla Luna. Io non ho mai dato molto credito a queste storie, però considerate altre cose che sono accadute, trovo difficile scacciarle dalla mia mente. (2001: A Space Odissey, Arthur C. Clarke, Stanley Kubrick, 1968)

 

 

 L’Atramentum, il colore nero (Vitruvio, De Arch., VIII, 10) si può ricavare dalla fuliggine, mista a resina o a glutine, o dal legno resinoso, o ancora dai sarmenti di vite, o infine dalla feccia di vino.

 Plinio (Nat. Hist. XXXV, 6) pone l’Atramentum tra i colori austeri e secchi, contra quelli floridi e vivi, e chiarisce che si tratta di un colore artificiale, prodotto per manipolazione di elementi naturali. Se ne conoscevano tre qualità: librarium o scriptorium, usato per l’inchiostro, sutorium, per tingere le pelli, e tectorium o pictorium, per dipingere pareti o quadri. In seguito, nel XVI secolo, si distingue tra ater e niger: ogni atro è nero, ma non tutti i neri sono atri (Antonio Telesio, De coloribus, 1528), essendo il primo orrendo, triste e infelice, e l’altro lucente, opportuno, suggestivo e affascinante, come talvolta sono gli occhi delle persone, che guardiamo con piacere e mai definiremmo atri.

 Lodovico Dolce (Dialogo nel quale si ragiona.... dei colori, 1565) associa l’ater alla morte: esso è il colore di un estinto carbone, o del sangue quando per qualche ferita esce fuori, e raffreddandosi, e perdendo la rossezza.

 Nigredo è poi il momento iniziale dell’opera alchemica, la notte oscura dell’anima, la materia nera dove la luce non ha dominio. La notte è lo stato naturale più simile a Nigredo, e diciamo noctiluca l’immagine che riluce nel buio, per fosforescenza naturale o debolmente illuminata dalla luna.

 Accade qui che dalla notte, emergano figure dell’antichità classica, paesaggi e architetture di fantasia del Terzo e Quarto Stile Pompeiano (I sec. d.C.), dai contorni essenziali e bianchi, e prove di campiture arrossate. L’opera si evolve dall’Atramentum, il nero della decomposizione, all’Albedo, il bianco, la somma di tutti i colori, il cui stato è quello argenteo o lunare.

 

E Ogni notte i sogni fanno della filosofia per proprio conto (C. G. Jung).

 

Sandro Lorenzatti